Henri Rousseau, La guerre
1894, Museo del Jeu de Paume - Parigi
 Ottocento 

 

(Argan)

Nel momento in cui l’arte si qualifica come attività intellettuale al livello più alto, si sente il bisogno di distinguerla dalla cultura ufficiale o borghese per un suo carattere di spontaneità creativa: si afferma insomma che l’arte può esistere anche senza, anche contro quella cultura. Dal culto romantico dell’arte medievale, ingiustamente de finita «primitiva», si passa all’interesse per l’artista incolto, ingenuo, popolare: una qualifica, quest’ultima, da escludere senz’altro per la lunga serie dei naïfs di cui una società sazia d’intellettualismo si entusiasma, si direbbe, per il piacere dell’autopunizione. A costoro si dà come capostipite Rousseau, un commesso daziario che, a quarant’anni, ha lasciato l’impiego per darsi alla pittura. All’opposto di Toulouse che partecipa intensamente della vita parigina del suo tempo, quasi si confonde nel suo turbinio colorato, Rousseau se ne astrae, rimette l’arte sul suo piedestallo, ostenta nei suoi confronti l’ammirazione sconfinata dell’indotto, del primitivo, per i grandi valori dello spirito. Di fatto non era un incolto ma un autodidatta, che certamente mancava della cultura professionale che si impartiva nelle Accademie e trionfava nei Salons, ma rientrava tuttavia nell’ambito di una cultura non-ufficia le. Venne infatti «adottato» da artisti e letterati, che combattevano contro la cultura prediletta dall’alta borghesia parigina: da Signac a Picasso, da Jarry ad Apollinaire. Di Jarry, l’autore di Ubu Roi, fece un ritratto nel ‘94; e Jarry, col suo cinismo buffonesco e dissacrante, fu senza dubbio uno dei suoi punti di riferimento, anche se la sua pittura non ha intenti sarcastici e polemici. Le sue figurazioni, spesso dedotte dalla imagerie popolare. furono bensì utilizzate come argomenti polemici contro la «mistificazione» edonistica del Simbolismo; ma la stessa esaltazione che si fece della sua opera era ancora una mistificazione, e Rousseau pittore è altra cosa dalla maschera tra comica e patetica che di lui fecero i suoi amici pittori. Più giusto è inquadrare il «caso Rousseau» in una situazione culturale caratterizzata ormai dal disgusto per la civiltà industriale, ed in cui già maturano i germi del la rivolta intellettuale che esploderà verso il 1910 con i movimenti di aperta rottura, il Cubismo e le varie «avanguardie» europee. Gli anni del «caso Rousseau» sono anche gli anni della fuga di Gauguin a Traiti, di Rimbaud in Africa: e se un Gauguin butta via il ciarpame di una falsa cultura per rifarsi nelle isole del Pacifico una verginità da primitivo, come non applaudire all’apparizione nel cuore di Parigi, di un artista vergine e primitivo? Di lì a poco si crederà di scoprire l’arte pura nella scultura negra: il « caso Rousseau» è il precedente diretto della crisi culturale che porterà Picasso a rifare secondo il modello negro, Les demoiselles d’Avignon (1907). Intenzionale o no, l’incidenza di Rousseau in una cultura in cui la tendenza simbolista andava accentuandosi è stata importante: non già nel senso di un richiamo alla tradizione impressionista di un’arte tutta visiva, ma nel senso di un netto capovolgimento della linea simbolista. La Guerre è un’allegoria apocalittica composta secondo il processo descrittivo delle stampe popolari: dal grande cavallo nero che attraversa tutto il campo scende la Discordia sulla campagna piena di morti, ed ha in mano la spada e la face (fiaccola, ndr) incendiaria. Poiché il pittore ignora, o non mette in opera alcun artificio per rendere «verosimile» la figurazione allegorica, questa conserva il suo carattere di visione estatica. Ma a questo punto subentra lo scrupolo del «sacro» mestiere: tutto dev’essere minutamente descritto, dalle zolle del terreno alla criniera del cavallo. Così la visione si fissa come un intarsio di pietre dure, nulla può farla dileguare: non è più qualcosa d’immaginario, è un’immagine che si dà presente concreta, irremovibile. Perciò non è accompagnata da attributi suggestivi, che ispirino sgomento: fumo, bagliori, figure contorte, smorfie di spasimo. E proprio la serenità della fattura diligente, della delicata scelta coloristica, della descrizione attenta che dà alla visione la certezza di un mito avverato. Tutto è simbolo: i rami spezzati e le foglie cadenti, il cavallo apocalittico e i corvi, la donna con la veste a brandelli ed i morti già quasi ricoperti dalle zolle di terra. Ma nulla è «simbolico» cioè trasposto dalla realtà all’idea. È l’idea, semmai, che scende e s’invera nell’immagine. Se per i simbolisti il simbolo è trascendenza, segno spirituale oltre la realtà delle cose. Per Rousseau il simbolo è discendente: non astrae, s’invera, opprime proprio per la sua fissità e rigidezza e perfino con l’apparente bellezza che seduce e vieta di rimuoverlo, dimenticarlo. Allora anche quella che può apparire elementarità e goffaggine diventa un problema: e se, rimosse le convenzioni che le fanno apparire diverse, le persone e le cose fossero come il pittore le presenta: simboli concreti come realtà o realtà spente, morte come simboli? Indubbiamente, in un epoca in cui non si parlava che di progresso, la pittura di Rousseau non poteva che apparire paurosamente regressiva: non scopriva tanto il proprio primitivismo, quanto quello di una civiltà che, persuasa di possedere la chiave della verità, ogni giorno di più sprofondava nella superstizione dei simboli, dei miti, della magia. Gauguin a Tahiti vedeva i miti «barbari» con gli occhi del parigino in vacanza; Rousseau, a Parigi, vede i miti della civiltà moderna con gli occhi del primitivo spaesato in una società progredita. Aveva dunque ragione Picasso quando salutava nel vecchio Rousseau un maestro: in certo senso è stato l’ingenuo stregone da cui ha imparato i rudimenti della sua ben altrimenti smaliziata magìa. Ma di Rousseau, e proprio di questo quadro, si ricorderà quando, nel 1937 dipingerà Guernica: la profezia della fine della civiltà, che il Doganiere adombrava nella sua «ingenuità», si era tradotta in agghiacciante realtà.

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